Poco prima di Natale avevo sconfinato dal mio reparto a quello a fianco, per caso, perché sapevo che non c’erano altri volontari quella sera. Sempre per caso sono entrata in una stanza un po’ defilata, nascosta e ho visto un giovane chinato su un letto in cui c’era un altro immobile, con la tracheotomia, molto somigliante, il fratello. Era Giovanni. Appena mi ha visto mi ha teso la sola mano che poteva muovere e me l’ha stretta forte guardandomi con occhi enormi e disperati.
Non la lasciava più. Come a chiedermi qualcosa.
È stata una tale stretta al cuore…non sapevo allora cosa gli fosse successo, non lo chiediamo mai. Incidente? Evento cerebrale? Ogni volta che sono tornata in reparto l’ho cercato, se la porta era chiusa poi tornavo, una volta che era solo ho avuto il coraggio di chiedergli: “un incidente? ” e lui, che non poteva parlare, con disperazione faceva no no no con la testa.  Poi ho saputo dell’evento.
Era appena uscito dalla rianimazione per un’improvvisa emorragia cerebrale che gli aveva fermato la parola e la parte destra del corpo. Sapeva tutto. Suo fratello veniva ogni giorno sempre con un sorriso fiducioso e gli faceva coraggio. Cosa si può dire? Niente…Sarà lunga, vedrai, ci vorrà tanta pazienza, ce la fai. Parole che già mentre le dici suonano vuote.

Noi volontari non facciamo mai pronostici né diamo speranze che non possiamo essere sicuri che si avverino.  Io dicevo che tutto può succedere e che avevo visto fare cose meravigliose dai medici e dalla natura. Poi da una volta all’altra ho visto piccoli importanti passi avanti. Qualcuno dei miei amici volontari si è affezionato come me a quei due meravigliosi fratelli.
Ha toccato il cuore a tutti. Gli infermieri una volta gli hanno alzato il letto il più possibile perché potesse vedere bene le luci del tramonto e l’ho trovato in alto che guardava fuori.
Come facciamo da un paio d’anni con la mia amica volontaria Daniela la sera del 31 dicembre siamo passate a fare un giro in reparto per fare un augurio a chi ha la sfortuna di essere lì mentre tutti festeggiano (o fanno finta). È stato commovente e quasi incredibile vedere Giovanni che iniziava a dire qualche parola sbagliando ma sempre con il sorriso e gli occhi buoni. E cercava sempre la mano da stringere in silenzio.

L’ultimo giorno prima che lo trasferissero ho portato con me a conoscerlo e salutarlo una giovanissima e dolcissima nuova volontaria. Siamo uscite con le lacrime agli occhi ma ho fatto due passi e sono tornata indietro per chiedere al fratello se potevo avere sue notizie in futuro. Sono state ogni volta più confortanti.
Con Daniela siamo andate a trovarlo poi una volta in riabilitazione. Camminava un pochino, parlava benino, si sbagliava e non ricordava i nomi delle nipoti ma sorrideva molto. E poi quando a forza di tentativi se ne ricordava rideva e scuoteva la testa. Ci ha un po’ raccontato della sua vita e sperava di andare a casa per Pasqua. Ci ha detto che viveva con la mamma per essere con lei in caso lei avesse avuto bisogno e che invece era stata lei a salvare la sua vita con la prontezza di chiamare aiuto quando lui era stato male. Gli ha dato la vita due volte. Un po’ attraverso il fratello e a volte telefonandogli ho seguito la sua strada per un po’. Inusuale, incontri tante persone ma in genere sfiorano soltanto la tua vita. È una specie di difesa.

Oggi mi ha telefonato per dirmi che era a casa da ieri, felice di aver avuto la possibilità di stare al riparo in questo periodo assurdo di pandemia. Era poi al riparo? Sembra di si. Auguri a Giovanni, auguri per una vita che avrebbe potuto fermarsi in una sera di inizio dicembre e che gli ha dato una nuova possibilità.

È un privilegio per noi avere la possibilità di incontri con il cuore. Ci manca tutto questo.
Ma il tempo ci sarà amico. Avremo ancora la stessa possibilità di dare invece che questa assenza di tutto.
La lentezza finirà e tornerà il correre convulso.
Ma chissà, magari saremo cambiati. Ma come si fa a stringere una mano coi guanti di lattice?